Libri. Dalla LEF “La parola fa eguali”, nuova edizione con un inedito di Michele Gesualdi

Una Nuova edizione del libro “La parola fa eguali” ( pag.200, Euro 14,00)  a cura di Michele Gesualdi e Fondazione Lorenzo Milani,  rivista e aggiornata con uno scritto inedito di Michele Gesualdi dell’ottobre 2018 pubblicata dalle edizioni LEF.

Il volume, oggi più che mai di grande attualità, racchiude gli scritti di don Lorenzo Milani sulla scuola, una bella occasione per ritornare al pensiero di quel sacerdote che seppe lanciare una sfida sul ruolo della scuola.In questo volume il lettore troverà diversi spunti di riflessione su temi come scuola pubblica e scuola privata, sul significato morale dell’educazione e molto altro ancora. Il libro sfata il mito costruitosi nel tempo che don Milani volesse una scuola blanda.

Don Milani non ha mai pensato che il figlio del contadino fosse più ignorante del figlio del farmacista o del dottore, ha invece osservato che il figlio del contadino è portatore di una cultura diversa, ma non inferiore. Per Don Milani la scuola era il mezzo per dare la parola, far capire, aprire le menti e i cuori. La scuola era in grado di dare ai poveri dignità e renderli protagonisti farli crescere  per renderli liberi e consapevoli.

Il Priore (come credo tutti noi) desiderava una scuola non selettiva ma esigente, impegnata con una forte carica culturale, che educhi all’impegno politico e sociale ma non subalterna agli interessi di nessuno. Questi sono gli argomenti contenuti negli scritti che pubblichiamo e che ancora oggi, dopo oltre 50 anni, rappresentano un messaggio sociale forte che ha mantenuto la sua freschezza e la sua attualità.

Don Milani  era un prete ma soprattutto un maestro di libertà.

Ecco un brano di Don Milani tratto dal testo.

Se mi domandate perché faccio scuola, rispondo che faccio scuola perchè voglio bene a questi ragazzi. Come voi mandate a scuola i vostri figlioli, così io ci tengo che i miei figlioli abbiano scuola; questa è una cosa affettiva, naturalissima. Mi pare che non ci sia neanche da perdersi a spiegarla. Dal punto di vista proprio di parroco, ho l’incarico di predicare il vangelo. Predicarlo in greco non si può perchè non intendono. Sicchè, bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendono l’italiano.

Questa è quella cosa che io nego. Quantunque i miei parrocchiani siano toscani, quantunque usino espressioni dantesche ogni poco, non son capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì, o nei pettegolezzi delle famiglie. Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica. Questa è la condizione, direi di ordine pastorale, che non dovrebbe direttamente interessarvi, ma vi spiega un pò perchè mi occupo di questa cosa.

Su questa premessa, cioè considerandomi un missionario in un paese straniero di cui non conosco la lingua, io avevo ancora la possibilità di studiare la loro lingua e parlare il loro linguaggio, ma dal dimostrarvi che questo linguaggio non esisteva. Non si può parlare la loro lingua perchè è una lingua di basso interesse, di bassi vocaboli. Non bassi in senso cattivo, ma non elevati. Ed io non mi ci abbasso a livello dei miei parrocchiani. Abbassarsi al loro linguaggio e non dire più cose alte, a me non va. Io seguito il mio linguaggio alto e quindi o loro vengono al mio linguaggio o non ci si parla. Ecco perchè io ho iniziato il mio apostolato dalla scuola, con l’insegnare la grammatica italiana.”

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